
C’era una volta, in Pakistan, un bambino speciale di nome Iqbal.
Iqbal non era libero, perché suo padre lo aveva venduto per 12 dollari al proprietario di una fabbrica di tappeti.
Iqbal era un ometto di 12 anni col corpo di un bambino di 6, a causa delle fatiche del lavoro; un bambino che lavorava spesso incatenato e non pagato con un giusto salario, perché guadagnava appena 3 centesimi per 12 ore di lavoro al giorno.
Era ormai uno schiavo, ma non era solo: con lui c’erano gli altri bambini della fabbrica e milioni di bambini sparsi nel mondo vivevano come lui in una piantagione o in una fabbrica.
Questo era ciò che Iqbal, che aveva un carattere un po’ ribelle, doveva conoscere per agire: sapere che i bambini hanno dei diritti e che non vanno calpestati.
Era arrivato il tempo, per Iqbal, di denunciare a voce alta la schiavitù dei bambini e iniziò così a parlare al mondo, a stare seduto accanto alle persone che contano, per battersi contro lo sfruttamento minorile.
L’integrità e la determinazione di Iqbal spaventarono la gente potente della mafia dei tappeti, che lo uccise un giorno mentre giocava in bici con i suoi cuginetti.
Il suo sogno era diventare un avvocato per difendere i diritti di 7,5 milioni di bambini del suo paese sfruttati e ridotti in schiavitù.